«Gli avevo detto di non scriverlo». Ma la confidenza col giornalista non esiste

Ci risiamo. Ogni volta che arriva una tornata elettorale c’è qualcuno che mi chiama per capire come rimediare al solito articolo in cui sono comparse notizie che non dovevano esserci. Detto che quando la frittata è stata servita ai lettori è ben difficile sparecchiare la tavola, oggi non voglio occuparmi di queste piccole (o grandi) “missioni impossibili”, di cui tornerò a parlare quando tratteremo di comunicazione di crisi. Preferisco stare sul pensiero che ho messo nel titolo, che certamente farà incazzare qualche collega, ma che è una grande verità nella comunicazione: mai fidarsi dei giornalisti quando si rilasciano dichiarazioni off the record, ovvero a microfono spento. O, per meglio dire, in via confidenziale.

Non esiste la confidenza nel rapporto con chi si occupa di informazione.

Perché, una volta fiutata la pista, il giornalista troverà (quasi) sempre il modo di farsela raccontare da qualcun altro. E scatterà la pubblicazione.

Ciò significa che la confidenza fatta al giornalista non è mai un pettegolezzo casuale, ma una chiara forma di comunicazione: è un modo per trasmettere una riflessione o un’opinione che non può diventare ufficiale, ma che aiuta il giornalista a chiarirsi il quadro e gli indica una possibile strada lungo cui trovare notizie (più o meno) succulente. O, almeno, così è per chi si occupa di comunicazione e sa come trattare con i giornalisti.

Per tutti gli altri, che si sono lasciati andare al classico «guardi, glielo dico solo se non lo scrive, perché la verità è che …», la confidenza diventa sempre (e questa volta senza anteporre il “quasi”) un boomerang. Un siluro imparabile e non più schivabile.

Così, con questo pensiero della sera, siete avvisati: mai fidarsi dei giornalisti rilasciando dichiarazioni in via confidenziale. A meno che l’obiettivo non sia proprio di veder pubblicato quanto sussurrato.

Ma non offendete l’intelligenza dei giornalisti raccontando balle per screditare qualcuno. Non funziona 😉

I social per le aziende? Contenuti, ritualità e ne basta uno

Predicare la ritualità e pensare a questo mio blog mi fa venire un po’ da ridere … ma tant’è. E archiviato questo mese di aprile accorciato dai tanti “ponti” e per me denso di eventi e accadimenti, visto che nelle ultime due settimane sono spesso andato sull’argomento con vecchi clienti e nuovi contatti, eccomi a dire come penso che le aziende dovrebbero usare i social network.

Con una premessa: nel mio libretto sulla comunicazione ho chiarito che i social network non sono un target dell’ufficio stampa … perché l’informazione ha delle regole precise che i social network, per loro natura anarchici e libertini, proprio non accettano … Asserire questo non significa in alcun modo sminuire la potenza dei social network, semplicemente marcare una chiara differenza, dovuta sia all’alta permeabilità dei social network alla pubblicità occulta e all’azione dei gruppi organizzati, sia alla mancanza del lavoro di controllo e verifica delle informazioni che è alla base del potere dei media. Certo, su pubblicità occulta, gruppi organizzati, veridicità e controllo si potrebbe parlare per ore e, se si potesse farlo, ne avrei proprio di cose che ho fatto da raccontare ☺.

Oggi voglio stare nel tema, cioè il mio modo di intendere la comunicazione sui social per le aziende. Ovvero: per i profili, proporre con ritualità contenuti e storie con cui raccontare il proprio prodotto e parlare di sé senza formule smaccatamente pubblicitarie, alternando con continuità contenuti in cui di sé e del proprio prodotto proprio non si parla, ma si offrono notizie e approfondimenti sul proprio mondo di riferimento o su argomenti di stretta attualità; per l’engagement, evitare come la peste l’acquisto di like, visualizzazioni e sponsorizzazioni dei propri contenuti e puntare al posizionamento naturale e al coinvolgimento dei gruppi di volta in volta più interessati all’argomento, andando a cercarli, solleticarli, incuriosirli ad uno ad uno.

E, soprattutto, capire perché si vuole entrare nei social. «Perché ci sono tutti», «Perché dobbiamo svecchiarci», «Per trovare nuovi clienti»: non sono risposte né sufficienti né utili a sostenere una scelta così importante -e senza ritorno- per un’azienda. Seguire la massa non è mai utile in comunicazione: ci si ritrova spersi nel mezzo del gregge, coperti dai belati degli altri e assolutamente non più distinguibili. Per svecchiarsi, quella di aprire dei profili sui social network non è certo l’unica strada. Per trovare clienti, quasi sempre è più utile la lead generation. Senza aggiungere che i social si possono tranquillamente utilizzare in comunicazione (e non sto parlando di pubblicità) senza bisogno di avere un profilo.

Seguo aziende che il profilo social non ce l’hanno per scelta, ne supporto altre che se lo fanno internamente chiedendoci solo periodiche consulenze e altre ancora che ci hanno affidato in toto la gestione dei loro profili. E non è che una sia meglio dell’altra. E’ tutta una questione di strategia di comunicazione. E l’omologazione non è mai una strategia.

Ah, dimenticavo: per un’azienda meglio avere un profilo attivo, quotidianamente aggiornato e reattivo ai commenti su un solo social network, che avere presidi semideserti e sovente abbandonati su tutti i social.