Finché le aziende cercano uffici stampa «markettari» i giornalisti non si fideranno mai degli uffici stampa

«Eccomi a dar seguito al nostro meeting e a richiedervi la vostra migliore proposta per la gestione di un ufficio stampa nazionale e trade» … «grazie, ma stiamo cercando un’agenzia pr che abbia un approccio molto più “markettaro”».

🙁

Sono basito. Soprattutto perché me lo scrivono.

Cioè: è chiaro? Stiamo parlando di un’azienda nazionale, tra i top player nel suo settore, che prima mi dice che vuole un ufficio stampa e poi che lo vuole “markettaro”.

E’ questa impostazione, assolutamente imperante tra gli italici manager, che porta le aziende ad essere viste malissimo dalle redazioni dei media e i capi redattori a continuare a consigliare ai propri giornalisti: «vai, ma non fidarti di ciò che ti dicono quelli dell’ufficio stampa».

Un ufficio stampa che non condivida nel suo agire i valori deontologici che stanno alla base del lavoro dei giornalisti, non potrà mai essere preso sul serio da media. E un approccio «molto più “markettaro”», va da sé, proprio non riesce a far diventare un’azienda solida e attendibile fonte di informazione per gli operatori dell’informazione.

Nulla, ma proprio nulla, da dire sulle aziende che scelgono la strada delle “relazioni con i media” (perché così si chiamano gli approcci “markettari”) per cercare di crearsi una reputazione, trattando quindi i giornalisti come un proprio pubblico di riferimento a cui applicare le, più o meno classiche, regole delle pubbliche relazioni. Basta che poi non si mettano (regolarmente) a piangere perché sui giornali ci finiscono sempre gli altri oppure perché per ottenere un passaggio devono “pagare dazio” … ma questo è un altro tema, su cui prima o poi tornerò.

La colpa, cari manager, non è dei “cattivi giornalisti” che non comprendono quanto si potrebbe raccontare delle vostre aziende e dei vostri prodotti, ma solo delle vostre scelte di approccio.

Che, sia detto per inciso, rendono ogni giorno più difficile il lavoro dei giornalisti che fanno gli uffici stampa e ampliano sempre più il vostro (e nostro) divario con gli operatori dell’informazione.

Comunicazione di crisi, il Sole dice che abbiamo fatto vedere come si fa ?

Roncadin: lezione di comunicazione in tempo di crisi

In Italia, la comunicazione degli uffici stampa viene vista come attività di pierre e la maggior parte delle aziende non comprende l’importanza di affidarla a giornalisti.

Poi, oggi, tutti insegnano che la cosa importante è solo la rete, che lì trovi  i giornalisti e ci parli. Balle: fosse così semplice …

Che internet sia determinante per il rapporto one to one con le persone è certo (dall’inizio della comunicazione di crisi abbiamo gestito anche la pagina facebook di Roncadin: giudicate da soli), ma che la comunicazione con i colleghi delle redazioni debba essere fatta in questo modo è una certezza ed è l’unica che ancora funziona davvero. Perché quando scoppia una crisi, l’unica realtà è quella percepita come vera dai pubblici di riferimento.

Siamo contenti di averlo dimostrato, ma siamo ancora più felici per la ripartenza di Roncadin.

Si, lo so, non è proprio un post da blog. Ma, visto il riconoscimento, perdonerete il mio parlarmi addosso.

http://www.varesenews.it/2017/09/salvata-lazienda-e-540-posti-di-lavoro-anche-grazie-alla-comunicazione-di-crisi/655532/

http://www.legnanonews.com/news/cronaca/908446/comunicazione_di_crisi_eo_ipso_eccellenza_italiana

http://www.laprovinciadivarese.it/stories/Economia/comunicare-la-crisi-ecco-come-si-fa_1256182_11/

«Gli avevo detto di non scriverlo». Ma la confidenza col giornalista non esiste

Ci risiamo. Ogni volta che arriva una tornata elettorale c’è qualcuno che mi chiama per capire come rimediare al solito articolo in cui sono comparse notizie che non dovevano esserci. Detto che quando la frittata è stata servita ai lettori è ben difficile sparecchiare la tavola, oggi non voglio occuparmi di queste piccole (o grandi) “missioni impossibili”, di cui tornerò a parlare quando tratteremo di comunicazione di crisi. Preferisco stare sul pensiero che ho messo nel titolo, che certamente farà incazzare qualche collega, ma che è una grande verità nella comunicazione: mai fidarsi dei giornalisti quando si rilasciano dichiarazioni off the record, ovvero a microfono spento. O, per meglio dire, in via confidenziale.

Non esiste la confidenza nel rapporto con chi si occupa di informazione.

Perché, una volta fiutata la pista, il giornalista troverà (quasi) sempre il modo di farsela raccontare da qualcun altro. E scatterà la pubblicazione.

Ciò significa che la confidenza fatta al giornalista non è mai un pettegolezzo casuale, ma una chiara forma di comunicazione: è un modo per trasmettere una riflessione o un’opinione che non può diventare ufficiale, ma che aiuta il giornalista a chiarirsi il quadro e gli indica una possibile strada lungo cui trovare notizie (più o meno) succulente. O, almeno, così è per chi si occupa di comunicazione e sa come trattare con i giornalisti.

Per tutti gli altri, che si sono lasciati andare al classico «guardi, glielo dico solo se non lo scrive, perché la verità è che …», la confidenza diventa sempre (e questa volta senza anteporre il “quasi”) un boomerang. Un siluro imparabile e non più schivabile.

Così, con questo pensiero della sera, siete avvisati: mai fidarsi dei giornalisti rilasciando dichiarazioni in via confidenziale. A meno che l’obiettivo non sia proprio di veder pubblicato quanto sussurrato.

Ma non offendete l’intelligenza dei giornalisti raccontando balle per screditare qualcuno. Non funziona 😉

I social per le aziende? Contenuti, ritualità e ne basta uno

Predicare la ritualità e pensare a questo mio blog mi fa venire un po’ da ridere … ma tant’è. E archiviato questo mese di aprile accorciato dai tanti “ponti” e per me denso di eventi e accadimenti, visto che nelle ultime due settimane sono spesso andato sull’argomento con vecchi clienti e nuovi contatti, eccomi a dire come penso che le aziende dovrebbero usare i social network.

Con una premessa: nel mio libretto sulla comunicazione ho chiarito che i social network non sono un target dell’ufficio stampa … perché l’informazione ha delle regole precise che i social network, per loro natura anarchici e libertini, proprio non accettano … Asserire questo non significa in alcun modo sminuire la potenza dei social network, semplicemente marcare una chiara differenza, dovuta sia all’alta permeabilità dei social network alla pubblicità occulta e all’azione dei gruppi organizzati, sia alla mancanza del lavoro di controllo e verifica delle informazioni che è alla base del potere dei media. Certo, su pubblicità occulta, gruppi organizzati, veridicità e controllo si potrebbe parlare per ore e, se si potesse farlo, ne avrei proprio di cose che ho fatto da raccontare ☺.

Oggi voglio stare nel tema, cioè il mio modo di intendere la comunicazione sui social per le aziende. Ovvero: per i profili, proporre con ritualità contenuti e storie con cui raccontare il proprio prodotto e parlare di sé senza formule smaccatamente pubblicitarie, alternando con continuità contenuti in cui di sé e del proprio prodotto proprio non si parla, ma si offrono notizie e approfondimenti sul proprio mondo di riferimento o su argomenti di stretta attualità; per l’engagement, evitare come la peste l’acquisto di like, visualizzazioni e sponsorizzazioni dei propri contenuti e puntare al posizionamento naturale e al coinvolgimento dei gruppi di volta in volta più interessati all’argomento, andando a cercarli, solleticarli, incuriosirli ad uno ad uno.

E, soprattutto, capire perché si vuole entrare nei social. «Perché ci sono tutti», «Perché dobbiamo svecchiarci», «Per trovare nuovi clienti»: non sono risposte né sufficienti né utili a sostenere una scelta così importante -e senza ritorno- per un’azienda. Seguire la massa non è mai utile in comunicazione: ci si ritrova spersi nel mezzo del gregge, coperti dai belati degli altri e assolutamente non più distinguibili. Per svecchiarsi, quella di aprire dei profili sui social network non è certo l’unica strada. Per trovare clienti, quasi sempre è più utile la lead generation. Senza aggiungere che i social si possono tranquillamente utilizzare in comunicazione (e non sto parlando di pubblicità) senza bisogno di avere un profilo.

Seguo aziende che il profilo social non ce l’hanno per scelta, ne supporto altre che se lo fanno internamente chiedendoci solo periodiche consulenze e altre ancora che ci hanno affidato in toto la gestione dei loro profili. E non è che una sia meglio dell’altra. E’ tutta una questione di strategia di comunicazione. E l’omologazione non è mai una strategia.

Ah, dimenticavo: per un’azienda meglio avere un profilo attivo, quotidianamente aggiornato e reattivo ai commenti su un solo social network, che avere presidi semideserti e sovente abbandonati su tutti i social.

Fare recall sui giornalisti significa mendicare: non si fa

Lo sapevo che scrivere un blog sarebbe stato un lavoro e ho ben chiaro che se non si tiene una ritualità di pubblicazione si perdono lettori. Ma se hai un’agenzia di servizi, le necessità dei tuoi clienti vengono sempre prima delle tue esigenze.

Excusatio non petita? Forse ☺. In realtà solo condivisione di chi, come voi, a fatica trova il tempo per fare ciò che gli piace; anche se devo dire che il mio lavoro mi diverte davvero. E per questo mi ritengo fortunato.

Un po’ meno divertente è passare il tempo a ripetere gli stessi concetti. Perché, a volte, anche chi ha sposato in pieno il mio modo di intendere la comunicazione ci ricasca.

Così è di ieri la telefonata di un cliente che mi dice: «ma se ha pubblicato la Repubblica, perché non lo deve mettere anche il Corriere? Dai, chiama qualche tuo amico in redazione e digli di pubblicare!».

Insomma, qualcuno ancora mi chiede di mendicare uno spazio per lui. Di fare come le pierre e telefonare al giornalista di turno per dirgli: «il mio cliente ci terrebbe davvero tantissimo a vedere pubblicata sul suo giornale questa notizia. Ma lei, che è sempre così attento alle questioni, come mai non capisce l’importanza di questo nostro comunicato?».

Insomma, nel blandirlo gli si dice che non sa fare il suo lavoro. Quando, ovviamente, non si fa di peggio. Come metterlo in contrapposizione al solerte collega della testata concorrente che, invece, ha pubblicato. Oppure si tenta di comprarne la benevolenza con inviti a cena o promesse di invio di beni o prodotti. O si finisce a mendicare anche nei toni: «dai, uno spazietto sul giornale me lo può anche trovare, faccia il bravo!».

Ora, ho ben chiaro che il 90% delle agenzie di comunicazione queste telefonate le fanno come prassi di lavoro. Di più, spiegano a clienti e discepoli che se non fai recall non ottieni nulla dai giornalisti brutti, sporchi e cattivi. Che bisogna chiamarli, altrimenti non vedono il tuo comunicato (e questa è patetica: ma ogni volta che mandano una mail o un sms telefonano al destinatario per sapere se l’ha visto? Ma che usino what’s up, dato sono pochissimi quelli che bloccano le “spunte” azzurre!).

Con altrettanta chiarezza so come queste telefonate vengono accolte dai colleghi. Lo so, perché ne ho ricevute a bizzeffe quando ero a capo di redazioni e perché ho tanti amici che ancora stanno nei media e ogni volta me le commentano con malcelata ilarità e spesso con fastidio. Atteggiamento, quest’ultimo, pericoloso per un giornalista, perché rischia di fargli bollare a priori qualunque comunicazione giunga da quella data fonte come una scocciatura, col rischio di perdersi spunti che potrebbero per lui essere interessanti.

Noi giornalisti siamo delle brutte bestie, mi è chiaro, e in qualche prossimo post ne parlerò. Ma una cosa la sappiamo fare: capire se per noi, la nostra testata e la sua linea editoriale, il mix del notiziario che in quel dato momento stiamo creando, un fatto può diventare notizia. E se decidiamo di no, è no. Ma se la cosa che abbiamo letto è davvero interessante, ce ne ricorderemo. E magari ci verrà utile per un altro notiziario, oppure mai. Perché nel mondo dei media c’è un unico giudico di campo: il giornalista … e anche di questo ne riparlerò.

Sia chiara una cosa: quello che per me è notizia, può non esserlo per te. Così oggi Repubblica pubblica e il Corriere no. E domani potrebbe essere il contrario.

Ma capitela: la notizia non è mai il brand del cliente

Proprio non ce la fanno: è più forte di loro! Prima devono dire quanto è bello, quanto è grande, quanto è interessante il brand del loro cliente. E poi, forse, riescono a tratteggiare il fatto che potrebbe diventare notizia.

Sto parlando del modo di comunicare da pierre, purtroppo seguito anche da tanti colleghi che, per di più, pensano di avere ragione e che la colpa sia tutta dei “cattivi” giornalisti delle redazioni. Colpevoli, secondo loro, di non comprendere le notizie.

L’ennesimo esempio è delle scorse settimane.

Per ragioni di lavoro ho avuto contatti con un ufficio stampa gestito con i classici metodi da pierre, che mi ha chiesto dei dati generali del settore della vendita a domicilio. Non ce n’erano di recenti, giro quel che ho e dopo un paio di giorni mi arriva per conoscenza il loro comunicato.

Con una mail accompagnatoria: «Mi auguro di cuore che i dati da voi forniti “aiutino“ a fare accendere qualche lampadina anche ai giornalisti più “ indifferenti”!».

Bho, penso, se la tua notizia non ha forza in sé, come la può avere con dei dati che abbiamo già comunicato da tempo?

Così apro il comunicato e leggo (in corsivo le parole che ho cambiato per non citare il brand e in neretto la notizia. E, sì, le maiuscole stanno proprio nel testo originale: sic!): «Cosmetici naturali di altissima qualità, prodotti in quel tal Paese e distribuiti attraverso “Party” a domicilio. Amati da migliaia di consumatori che, ogni giorno, aprono le loro case a 24.000 Incaricati alle vendite. Qualità, fiducia e responsabilità sono i pilastri sui quali l’azienda, che è ai vertici della vendita diretta, ha costruito la propria relazione con il mercato e rinnovato, ogni giorno, il patto con i propri consumatori. Per questo, nella settimana del 27 febbraio, l’azienda aderisce a “M’Illumino di Meno”, evento nazionale sul risparmio energetico giunto alla 13° edizione , promuovendo in tutto il Paese inconsueti “Incontri-Party” con i consumatori………a lume di candela!».

Analizziamo: 607 battute (10 righe, addirittura più di una “breve” di un qualunque giornale) di “fuffa” su quant’è bello e quant’è bravo il mio brand prima di dare la notizia. Che, dimenticavo, non viene messa neanche nel titolo.

Ora: io, oggi, sono arrivato all’undicesima riga solo per ricordarmi cosa non si deve fare. Ma se fossi stato ancora in redazione, mi sarei fermato alla seconda riga e poi sarei passato ad altro. Archiviando il comunicato come la classica velina pubblicitaria.

Non perché io sia indifferente, ma perché tu non sai interessarmi.

Se vogliamo ragionar con i media, proviamo a parlare il linguaggio dei giornalisti, mettendo in cima al pezzo la notizia e lasciando che sia lei a far parlare del vostro cliente.

Così, magari, le cose andranno meglio … senza il magari!

Perché la notizia non è mai il brand del cliente.