Comunicazione fai-da-te? Si può anche fare, ma rispettando le regole 2/2

Aver tenuto dei webinar aiuta un pigrone come me a proporre nuovi contenuti per questo blog. Così, come promesso ieri, vi lascio alcune regole da seguire se volete provare a fare il fai-da-te nella comunicazione verso i media.

Farsi aiutare da un ufficio stampa (ma un ufficio stampa di giornalisti) è sempre utile ?, ma se si hanno chiare le regole base della comunicazione per come rapportarsi con l’unico giudice che può decidere della pubblicazione della notizia, il giornalista delle redazioni, credo si possano comunque ottenere anche da soli dei risultati di cui essere fieri.

E allora eccole qui, le regolette, sia in versione testuale, sia raccontate nel video che ho tratto dal webinar che ho tenuto il 28 aprile per gli amici di Zero Pixel.

  • Innanzitutto rapporto paritetico. Nessuna sudditanza, paura, supplica o lusinga. Il giornalista fa il suo lavoro, tu il tuo. I ruoli sono chiari: tu devi presentargli il tuo fatto, con tutte le unità informative al posto giusto, ma senza inondarlo di informazioni. Lui deve decidere se trasformare quel fatto in notizia
  • Nel caso ci sia o stia iniziando un rapporto amicale, mai far leva sull’amicizia per ottenere un favore connesso alla pubblicazione o alla censura di una notizia
  • Mai affidarsi agli “off the record”, perché una volta fiutata la pista il giornalista troverà quasi sempre il modo di farsela raccontare da qualcun altro, e scatterà la pubblicazione. E ciò significa che la confidenza fatta al giornalista non è mai un pettegolezzo casuale, ma una chiara forma di comunicazione.
  • Seguire gli orari delle redazioni, dove, in genere, si inizia tardi la mattina e si finisce ben oltre l’ora di cena. Quindi un ufficio stampa non può aprire alle 8 e chiudere alle 17,30: non c’è nulla di più irritante per un giornalista che sta chiedendo un’informazione attorno alle 18 che lo scoprire che l’ufficio del comunicatore è chiuso o il sentirsi dire che “nell’azienda del mio cliente a quest’ora non c’è più nessuno che possa rispondere alle domande”
  • Gli strumenti per relazionarsi con i giornalisti non possono essere quelli commerciali o di marketing, ma devono essere semplici e facili strumenti di lavoro. La cartella stampa non ha bisogno né di cartoncini patinati né di foto da brochure, ma di semplice carta da fotocopia su cui sia anche possibile prendere appunti. I testi, cioè i comunicati stampa, che non è necessario mettere sulla carta intestata dell’azienda, devono essere caratterizzati da informazioni chiare e dalla presenza di dati numerici, il tutto organizzato secondo la regola delle “5W” (cioè con le classiche informazioni del notiziario giornalistico: Who/Chi? What/Che cosa? When/Quando? Where/Dove? Why/Perché?).
  • La conferenza stampa non è né un convegno né un incontro aperto a tutti, bensì un importante (deve essere importante, altrimenti perché convocarla? Basta un comunicato) faccia a faccia tra giornalisti e azienda. Senza claque per chi tiene la conferenza stampa o pubblico di alcun tipo.
  • Da ultimo: nessun regalo. Non serve e deontologicamente il giornalista è tenuto a non prenderlo. Quindi è controproducente e può essere interpretato come un tentativo di corruzione. Se invece è un simbolo/gadget di poco valore legato alla produzione della vostra azienda, o la prova “una tantum” della qualità del vostro prodotto/servizio, potrebbe persino essere utile e gradito.

Quella sottile differenza tra essere e fare

Il primo settimanale che ho diretto, la Libertà di Abbiategrasso, ha raggiunto il traguardo del secolo di storia. La richiesta di ricordare quel periodo per lo speciale dei 100 anni, è stata l’occasione per una riflessione che voglio condividere anche qui.

«Abbiamo bisogno di un giornalista che firmi e diriga la Libertà per un paio d’anni, per permettere ai nostri redattori di completare la pratica e iscriversi all’ordine dei giornalisti». Non ricordo con esattezza chi, dell’Editrice Abbiatense, mi fece questa proposta. Avevo 23 anni, mi dividevo tra impegno politico, università, collaborazioni a radio locali, quotidiani milanesi e al settimanale Luce di Varese, dove avevo mosso i primi passi della mia professione quando ancora sedevo sui banchi del liceo. Tante cose. Troppe a ben pensarci. Ma in quegli anni Ottanta era così: un mare di opportunità per chi aveva la mia età, e non solo. La voglia di sperimentare, crescere, imparare. E con questo spirito ho accettato il mio primo incarico da direttore.

E’ così che ho conosciuto Marco Aziani, a cui mi legano sentimenti di amicizia anche se le nostre strade si sono incrociate ben poco in questi ultimi trent’anni. Con lui e i ragazzi -a prescindere dall’età- della redazione ci siamo subito trovati in sintonia. La voglia di raccontare, di indagare, di cercare la verità dei fatti al di là delle facili apparenze. Un metodo di lavoro che si è rinsaldato nelle riunioni del sabato mattina, nelle notti a tracciare menabò e a disegnare sulle gabbie, nelle giornate in tipografia a Cilavegna (eh già, a quei tempi ancora si andava di fotocomposizione: a ripensarci oggi sembra preistoria!), nelle discussioni davanti ad abbondanti piatti di risotto o scodelle di minestrone in locali dell’abbiatense di cui ricordo ogni particolare, a parte il nome. E poi la nebbia, che a volte ti costringeva a guidare con la testa fuori dal finestrino.

Proust dice che il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come siano state veramente. Può essere. Ma di una cosa sono certo. L’esperienza di direttore della Libertà, oltre che un grande onore, ha rinsaldato in me la differenza tra fare il giornalista ed essere giornalista. Perché lo sforzo di ricercare la verità, di verificare ogni volta ogni singola informazione a prescindere dai “si dice” collettivi e la tensione a comportamenti deontologicamente corretti, non sono delle regole a cui adeguarsi per fare un mestiere, ma un modo di intendere la propria vita. E senza queste verità e le sue persone, la Libertà -e con lei tutti gli organi di informazione che svolgono un ruolo preziosissimo per le comunità umane- non potrebbe continuare a vivere e oggi non ci appresteremmo a festeggiare l’inizio del centesimo anno di pubblicazioni.

I viaggi stampa senza notizia si nascondono dietro al regalo

«E tra tutti quelli che hanno preso parte alla visita nello stabilimento, una volta visto il regalo solo la giornalista del Sole 24 Ore lo ha rifiutato, dicendo che non poteva proprio accettare».

L’aneddoto raccontatomi nei giorni scorsi da un amico (per la cronaca: il regalo era un elettrodomestico prodotto dalla ditta che ha organizzato il viaggio, dal valore commerciale di circa 900 euro), mi offre l’occasione per parlare dei cosiddetti viaggi stampa o press tour, che sono uno dei sei strumenti principali che ogni ufficio stampa ha a disposizione nel suo rapporto con i giornalisti. Nell’ordine, e con la consapevolezza o di non averne ancora parlato o di aver fatto solo degli accenni certo non esaustivi in questo mio “rarefatto” blog: comunicati stampa, conferenze stampa, dichiarazioni ufficiali, interviste, press briefing e viaggi stampa.

Diciamo subito che i viaggi stampa sono un’occasione offerta ai giornalisti per vedere da vicino e approfondire le peculiarità di un territorio o di una data destinazione, se stiamo parlando di turismo; il “dietro le quinte”, nel caso di eventi e fatti sportivi; i processi industriali, i nuovi manufatti o particolari linee di produzione, nel caso di aziende. E chi più ne ha, più ne metta.

Ogni viaggio stampa può essere utile. Basta rispettare la regola aurea che ho già espresso parlando di conferenze stampa: si organizza solo per cose davvero, davvero, davvero interessanti.

Del resto, se non ci fosse qualcosa di davvero, davvero, davvero interessante da raccontare ai lettori, perché mai il giornalista dovrebbe prendere parte al viaggio stampa? Mi sembra lapalissiano.

Ma, come sempre, ci si scontra con l’imperante visione di markettari che si travestono da uffici comunicazione e che hanno bisogno di mostrare al capo di turno che sono in grado di portargli in casa i giornalisti. E siccome il più delle volte i viaggi stampa tutto sono tranne che davvero interessanti, ecco che si infarcisce la compagnia di “penne” amiche, di blogger e influencer.

Sia chiaro, non si pensi che non comprenda la difficile posizione di collaboratori sottopagati e (spesso) sfruttati, e neppure che non abbia ben presente le ragioni e le scelte professionali di blogger e influencer. Basta avere chiaro che non siamo più nel campo dell’ufficio stampa ma in quello degli investimenti pubblicitari.

E, normalmente, chi organizza questi sedicenti viaggi stampa lo sa bene, tanto che quando si trova di fronte al giornalista che rifiuta il regalo comincia a sudare, perché è convinto che scriverà male di lui, del proprio cliente o dell’iniziativa in sé.

Nella realtà non è (per forza) così. E anche se i markettari proprio non lo capiscono, la spiegazione è molto più semplice ed è chiarita dall’articolo 2 del Testo unico dei doveri del giornalista, che non ha certo bisogno di ulteriori commenti: «Il giornalista non accetta privilegi, favori, incarichi, premi sotto qualsiasi forma (pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, regali, vacanze e viaggi gratuiti) che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità».

Poi, certo, la vita non è fatta di bianco e nero ma di infinite sfumature di grigio. E così, anche chi sembra impostare la propria offerta nel giusto modo, alla fine proprio non ce la fa ad uscire dalla logica del do ut des.

La conferenza stampa si convoca solo per cose (davvero, davvero, davvero) interessanti

Dopo aver detto tre «no» nel giro di 36 ore a tre diversi clienti (che non ho perso. Anzi!) che volevano farmi organizzare delle conferenze stampa, è giunto il tempo di rispettare la promessa fatta a un paio di amici/lettori e di parlare di questo argomento. O, perlomeno, di cominciare a parlarne, dal momento che per esaurirlo dovrò fare qualche altro post.

Partiamo dalla constatazione del fatto che chiunque, quando ha per le mani quella che ritiene una cosa importante da far sapere a tutti, immancabilmente vuole convocare una conferenza stampa. Tranne poi cominciare ad avere dei dubbi al suo approssimarsi: «E se poi mi fanno una domanda a cui non voglio rispondere?», «E se mi impappino?», «E se non riesco a farmi capire?», «E se finisce come dici tu e i giornalisti sono incazzati, mi mettono alla gogna e va tutto male?» …

Per le risposte a queste “angosciose” domande dovrete aspettare i miei prossimi post sull’argomento. Oggi mi interessa chiarire che una conferenza stampa si convoca solo se l’argomento è davvero, davvero, davvero interessante. Altrimenti è sufficiente un buon comunicato stampa.

E questo perché i giornalisti, di base, sono allergici alle conferenze stampa e alle perdite di tempo. Quindi, se li convochi ad una cosa che è importante solo per te ma non per loro, aumentano esponenzialmente le possibilità che ti massacrino sia durante la conferenza stampa sia dopo, cioè nei loro servizi. Oh, non è sempre stato così: ma secoli di conferenze stampa di minchiate hanno sviluppato l’allergia dei giornalisti alle conferenze stampa.

Quindi, prima di convocarne una, si deve essere certi che l’argomento che si ha tra le mani sia davvero, davvero, davvero interessante per gli altri e non solo per chi lo propone (tre volte su cinque,  quando me lo presentano si scopre che non è così … da qui i tre «no» di cui alla premessa).

Poi ci sono altre due cose da avere chiare prima di convocare una conferenza stampa. Innanzitutto, che la conferenza stampa è uno strumento assolutamente non controllabile: la variabile, indipendente e imponderabile, è costituita dai giornalisti che saranno presenti, dalle loro opinioni e dalle loro domande. Secondariamente, che la conferenza stampa non è né un convegno né un incontro aperto a tutti, bensì un faccia a faccia solo con i giornalisti.

…come? scusa? ti stai chiedendo il «perché» della seconda?. Perché questa è la regola. Non puoi scendere in un campo di calcio, pretendere di giocare, e poi cominciare a palleggiare come nella pallacanestro: ti deridono e ti sbattono fuori perché hai infranto la regola. Con la conferenza stampa è la stessa cosa: stai decidendo di entrare nel campo da gioco dell’informazione giornalistica, e le regole di quel campo sono già scritte, non le puoi cambiare. Una regola è che la conferenza stampa è un incontro tra te e i giornalisti. Non tra tutta la tua azienda, i tuoi supporter, i tuoi amici, parenti o dipendenti, magari accompagnati da quattro o cinque pierre della tua agenzia. Solo te e i giornalisti (beh, e il tuo addetto stampa, ovvio). Certo, quel “te” può anche voler dire 2 o 3 persone dietro al tavolo: la regola non riguarda chi sta dietro il tavolo, ma chi sta in platea. E in platea, se è una conferenza stampa, ci stanno solo i giornalisti. Altrimenti è un’altra cosa. E su questo non c’è discussione.

1, continuerà ?

L’intervista non si mendica mai. E ci si prepara bene per farla

Mi capita, a volte, di tornare sui fondamentali. Specie quando ho a che fare con clienti intelligenti (da questo punto di vista sono fortunato, perché nella maggior parte dei casi i miei lo sono sempre ?) che hanno ben compreso che l’evangelica locuzione estote parati oggi non è solo il motto  degli scout ma la prima regola in comunicazione e mi chiedono di aiutarli a prepararsi al meglio per comunicare. O, come in questo caso, per affrontare un’intervista.

Ghiotta per me, quindi, l’occasione per parlare qui di fondamentali dell’ufficio stampa, come ho spesso promesso e ancora non mantenuto.

Diciamo subito che, a meno di seguire un personaggio inserito nello star system (dell’economia, della politica, dello spettacolo), le interviste non sono proprio uno strumento quotidiano dell’ufficio stampa, dal momento che, di regola, le richieste da parte dei giornalisti sono davvero pochissime nell’arco di un anno.

La regola di base è che l’intervista va sempre concessa, a meno che l’impossibilità oggettiva di avere i dati di cui il giornalista vorrebbe parlare non obblighi a rimandarla nel tempo.

Di contro l’intervista va negata se rilasciandola a un media si “brucia” una conferenza stampa o un comunicato previsti nell’immediato futuro.

Detto questo, l’intervista va preparata con attenzione, chiedendo al giornalista gli argomenti di cui vuole parlare ma senza pretendere di conoscere le domande in anticipo: ad “allenare” l’intervistando ai possibili quesiti imbarazzanti, a cui mai si deve rispondere con un no comment, ci penserà l’ufficio stampa.

In un’intervista, anche se non è televisiva, non va trascurato o sottovalutato né l’aspetto estetico (a meno che non sia telefonica!), né la comunicazione paraverbale (tono, timbro di voce, accento, intonazione, ritmo e così via) e quella non verbale (come gestualità, postura, sguardo e mimica).

Bisogna sempre mostrare un atteggiamento rilassato, mai cedere all’ansia o all’aggressività e, ovviamente, spiegare ogni cosa con la semplicità indicata da Einstein: «Non capisci realmente una cosa fino a quando non sai farla capire a tua nonna».

E ricordarsi che le dichiarazioni off the record non esistono: una dichiarazione rilasciata con la promessa «ma questo non lo scrivere» significa indicare a Pollicino la strada da seguire … ma di questo ne ho già scritto

Da ultimo, l’intervista è un colloquio a due: e se il giornalista forse tollererà la silenziosa presenza del collega dell’ufficio stampa, certo sarà irritato dall’irruzione in scena di chiunque altro.

Dimenticavo, ma questo c’entra poco con i fondamentali e attiene alla differenza tra ufficio stampa giornalistico e di altro tipo: le interviste devono essere richieste dal giornalista, mai mendicate dall’ufficio stampa.