Senza una stampa libera non c’è democrazia

«Giù le mani dall’informazione», questo il claim del flash mob che si svolgerà domani, 13 novembre, nei capoluoghi di regione. Per «respingere tutti insieme gli attacchi volgari e inaccettabili contro i giornalisti e l’articolo 21 della Costituzione», ha detto Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi, dopo gli insulti e le minacce arrivate da esponenti del governo e dei 5 stelle.

Sono giornalista professionista iscritto all’albo dal 1985, ho ben chiaro (e lo dico sempre quando mi capita di parlare ai corsi per chi aspira a fare questa professione o a diventare un comunicatore) che di bastardate i giornalisti e le redazioni ne hanno fatto tante. Le più facili da ricordare sono quelle politiche. E tutte, o quasi, derivano dagli scambi, dagli intrallazzi e dagli affari tra giornalisti e politica, poteri forti, gruppi di interesse e così via. Ma per ogni esempio negativo ve ne posso citare più di mille positivi, dal cronista “di periferia” che ogni giorno svolge diligentemente e con passione il compito di informare con puntualità il suo territorio, alle decine di colleghi italiani costretti a vivere sotto una protezione permanente e rafforzata della polizia per le minacce di morte.

Insomma, comunque la pensiate sulla mia categoria, le nefandezze dei giornalisti sono decisamente superate dal ruolo che svolgiamo al servizio della comunità. E senza una stampa libera non c’è democrazia. Mai.

Per questo il tentativo dei 5 stelle di ridurre al silenzio l’informazione italiana è da condannare e combattere. Senza se e senza ma.

Se non è gestito da un giornalista è un «ufficio rapporti con la stampa»

Purtroppo devo fermamente dissentire con i miei “amici” di Varese News per il pezzo titolato «Quanto è figo lavorare in un ufficio stampa», che mi ha anche spinto a un’amara riflessione sulla realtà oltre le apparenze nei rapporti di ogni giorno.

Chi fa uffici stampa non è né giornalista di serie B né mago della comunicazione, ma collega che, con fatica quotidiana (come la vostra), cerca di fare il proprio lavoro e di mantenere alti i principi deontologici che differenziano un giornalista da un «pr markettaro».

Sul tema mi sembrava stato molto, molto chiaro l’Ordine dei Giornalisti quando, un anno e mezzo fa, ha segnalato «l’assenza di norme per il comparto degli uffici stampa privati. Ciò rende tra l’altro impossibile sanzionare l’abuso della professione che, per gli uffici stampa privati come già avviene per quelli pubblici, dovrebbe essere svolta esclusivamente dagli iscritti all’Ordine, con tutte le garanzie di professionalità, rispetto della deontologia e aggiornamento formativo che ciò comporta».

Perché, cari colleghi, se un ufficio stampa non è gestito da un giornalista, è chiaramente un ufficio rapporti con la stampa.

Spero di non dovervi ri-spiegare il perché.

In ogni caso, sul tema di chi intende l’ufficio stampa come parte del marketing mi ero già espresso (si veda il mio precedente post richiamato qui sotto) e parlavo proprio di aziende di queste lande.

Sic!

Finché le aziende cercano uffici stampa «markettari» i giornalisti non si fideranno mai degli uffici stampa

E’ il giornalista che sceglie cosa pubblicare: non si discute. Ma lo scritto non è il Verbo

Un fatto avvenuto sabato e un successivo scambio di idee (peraltro pacato) avuto con un cliente, mi offrono lo spunto per tornare su un concetto tanto semplice da spiegare quanto difficile da digerire, che sta alla base delle regole della comunicazione con i mass media. L’unico arbitro che decide cosa pubblicare e come farlo è il giornalista. Se pubblica c’è la notizia, se non lo fa non c’è (per quel determinato media). Se scrive quello che ti piace, va bene; se scrive ciò che non ti piace, va bene lo stesso (sempre che non travisi i fatti, in quel caso scatta la smentita). Tutto il resto sono chiacchiere inutili.

E quanto accaduto spiega bene il concetto. In sintesi: venerdì 19 ottobre c’è stata la cerimonia di proclamazione dell’Oscar della Vendita, manifestazione voluta dal mio cliente Univendita (l’associazione che raggruppa le principali aziende della vendita diretta a domicilio) per incoronare il migliore d’Italia. La cronaca di quanto accaduto l’avrete magari letta su un po’ di cartacei o vista in tv, sul web, tra gli altri, la trovate qui, oppure qui, o ancora qui. Mentre il fatto di cui parlo è questo pezzo di Nino Materi.

Il buon Nino ha fatto la sua scelta di come pubblicare quanto accaduto, basandosi sulle sue convinzioni (preconcetti?) e dando ai suoi lettori pure una falsa informazione: non è vero che nell’era dell’e-commerce il venditore porta a porta è un dinosauro semiestinto. Venerdì, agli Oscar, sono stati forniti i dati, da cui si evince che oggi i venditori a domicilio sono molti di più di quelli che erano attivi prima dell’avvento del web e che questa professione si dimostra anti ciclica ed è scelta tanto dai giovani quanto dai cosiddetti esodati (oltre alla fascia d’età di mezzo).

Il buon Nino agli Oscar era presente. Ma, evidentemente, la penna del cronista si è sciolta negli occhi celestiali della venditrice che tanto l’ha colpito. O, se preferite, ha fatto la sua scelta di come informare i suoi lettori di un accadimento. E questo lo accetto. L’ho scritto nel titolo. E’ il giornalista che sceglie cosa pubblicare: non si discute. E lo predico sempre ai clienti e ai giovani che hanno la pazienza di ascoltarmi.

Ma non discutere non significa accettarne il contenuto, se esso è una palese dimostrazione delle nefandezze che spesso fanno i giornalisti. Episodi, questi, di cui parlo sempre ai corsi e ai convegni che hanno l’ardire di ospitarmi, portando esempi più o meno famosi, cui da oggi si aggiungerà questo pezzo di Nino Materi.

E non pensare, Nino, che io sia di quelli che vogliono solo pezzi positivi. Te lo possono dire i miei clienti e lo testimonia la mia storia. Non sono mai stato un giornalista che «ci passa sopra» e, anni fa, fui “sequestrato” dagli espositori inferociti di una fiera per quanto avevo scritto. Mi “liberò” la polizia e poi scesero in campo il mio direttore, Guglielmo Zucconi, e l’Ordine di Milano a difesa della libertà di critica.

La differenza? Io avevo scritto le storture viste nel corso della mia inchiesta, tu hai tratto le tue parole da luoghi comuni e preconcetti.

Finché le aziende cercano uffici stampa «markettari» i giornalisti non si fideranno mai degli uffici stampa

«Eccomi a dar seguito al nostro meeting e a richiedervi la vostra migliore proposta per la gestione di un ufficio stampa nazionale e trade» … «grazie, ma stiamo cercando un’agenzia pr che abbia un approccio molto più “markettaro”».

🙁

Sono basito. Soprattutto perché me lo scrivono.

Cioè: è chiaro? Stiamo parlando di un’azienda nazionale, tra i top player nel suo settore, che prima mi dice che vuole un ufficio stampa e poi che lo vuole “markettaro”.

E’ questa impostazione, assolutamente imperante tra gli italici manager, che porta le aziende ad essere viste malissimo dalle redazioni dei media e i capi redattori a continuare a consigliare ai propri giornalisti: «vai, ma non fidarti di ciò che ti dicono quelli dell’ufficio stampa».

Un ufficio stampa che non condivida nel suo agire i valori deontologici che stanno alla base del lavoro dei giornalisti, non potrà mai essere preso sul serio da media. E un approccio «molto più “markettaro”», va da sé, proprio non riesce a far diventare un’azienda solida e attendibile fonte di informazione per gli operatori dell’informazione.

Nulla, ma proprio nulla, da dire sulle aziende che scelgono la strada delle “relazioni con i media” (perché così si chiamano gli approcci “markettari”) per cercare di crearsi una reputazione, trattando quindi i giornalisti come un proprio pubblico di riferimento a cui applicare le, più o meno classiche, regole delle pubbliche relazioni. Basta che poi non si mettano (regolarmente) a piangere perché sui giornali ci finiscono sempre gli altri oppure perché per ottenere un passaggio devono “pagare dazio” … ma questo è un altro tema, su cui prima o poi tornerò.

La colpa, cari manager, non è dei “cattivi giornalisti” che non comprendono quanto si potrebbe raccontare delle vostre aziende e dei vostri prodotti, ma solo delle vostre scelte di approccio.

Che, sia detto per inciso, rendono ogni giorno più difficile il lavoro dei giornalisti che fanno gli uffici stampa e ampliano sempre più il vostro (e nostro) divario con gli operatori dell’informazione.

Comunicazione di crisi, il Sole dice che abbiamo fatto vedere come si fa ?

Roncadin: lezione di comunicazione in tempo di crisi

In Italia, la comunicazione degli uffici stampa viene vista come attività di pierre e la maggior parte delle aziende non comprende l’importanza di affidarla a giornalisti.

Poi, oggi, tutti insegnano che la cosa importante è solo la rete, che lì trovi  i giornalisti e ci parli. Balle: fosse così semplice …

Che internet sia determinante per il rapporto one to one con le persone è certo (dall’inizio della comunicazione di crisi abbiamo gestito anche la pagina facebook di Roncadin: giudicate da soli), ma che la comunicazione con i colleghi delle redazioni debba essere fatta in questo modo è una certezza ed è l’unica che ancora funziona davvero. Perché quando scoppia una crisi, l’unica realtà è quella percepita come vera dai pubblici di riferimento.

Siamo contenti di averlo dimostrato, ma siamo ancora più felici per la ripartenza di Roncadin.

Si, lo so, non è proprio un post da blog. Ma, visto il riconoscimento, perdonerete il mio parlarmi addosso.

http://www.varesenews.it/2017/09/salvata-lazienda-e-540-posti-di-lavoro-anche-grazie-alla-comunicazione-di-crisi/655532/

http://www.legnanonews.com/news/cronaca/908446/comunicazione_di_crisi_eo_ipso_eccellenza_italiana

http://www.laprovinciadivarese.it/stories/Economia/comunicare-la-crisi-ecco-come-si-fa_1256182_11/

«Gli avevo detto di non scriverlo». Ma la confidenza col giornalista non esiste

Ci risiamo. Ogni volta che arriva una tornata elettorale c’è qualcuno che mi chiama per capire come rimediare al solito articolo in cui sono comparse notizie che non dovevano esserci. Detto che quando la frittata è stata servita ai lettori è ben difficile sparecchiare la tavola, oggi non voglio occuparmi di queste piccole (o grandi) “missioni impossibili”, di cui tornerò a parlare quando tratteremo di comunicazione di crisi. Preferisco stare sul pensiero che ho messo nel titolo, che certamente farà incazzare qualche collega, ma che è una grande verità nella comunicazione: mai fidarsi dei giornalisti quando si rilasciano dichiarazioni off the record, ovvero a microfono spento. O, per meglio dire, in via confidenziale.

Non esiste la confidenza nel rapporto con chi si occupa di informazione.

Perché, una volta fiutata la pista, il giornalista troverà (quasi) sempre il modo di farsela raccontare da qualcun altro. E scatterà la pubblicazione.

Ciò significa che la confidenza fatta al giornalista non è mai un pettegolezzo casuale, ma una chiara forma di comunicazione: è un modo per trasmettere una riflessione o un’opinione che non può diventare ufficiale, ma che aiuta il giornalista a chiarirsi il quadro e gli indica una possibile strada lungo cui trovare notizie (più o meno) succulente. O, almeno, così è per chi si occupa di comunicazione e sa come trattare con i giornalisti.

Per tutti gli altri, che si sono lasciati andare al classico «guardi, glielo dico solo se non lo scrive, perché la verità è che …», la confidenza diventa sempre (e questa volta senza anteporre il “quasi”) un boomerang. Un siluro imparabile e non più schivabile.

Così, con questo pensiero della sera, siete avvisati: mai fidarsi dei giornalisti rilasciando dichiarazioni in via confidenziale. A meno che l’obiettivo non sia proprio di veder pubblicato quanto sussurrato.

Ma non offendete l’intelligenza dei giornalisti raccontando balle per screditare qualcuno. Non funziona 😉