Prevenire costa meno che curare. Si sa, ma non si fa

Non voglio perdermi in un post lapalissiano, così non commento quanto ho titolato. Perché tu che mi leggi sai benissimo che così è e che di esempi ne puoi trovare a bizzeffe nel vissuto quotidiano. E sai anche quanto spesso sia fastidioso trattenersi dal fare una cosa (che senso ha stare fermo al semaforo rosso se l’altra strada è deserta? Ha senso, ha senso!) o, al contrario, quanta fatica ci si risparmia a decidere di non prevenire (perché devo camminare se piove e tira vento? Perché 10 mila passi al giorno)

Se lasci andare sul palco un tuo cliente senza prepararlo e poi fa una figuraccia, la colpa è tua. Non ci sono alibi. Se gli lasci fare quello che sai che è sbagliato: la colpa è solo tua. E se abdichi al ruolo, perché non vuoi litigare, non stai facendo il tuo lavoro. Certo: prepararsi per salire su un palco non è divertente, richiede tempo, sovente fa sentire sciocchi e, soprattutto, il cliente pensa sempre che non lo faccia nessuno. Ovviamente non è così. Ma la fatica e il fastidio del prevenire (e un po’ di paura del palco) spinge a rimandare la preparazione e produce una profezia di fallimento che troppe volte si avvera. E poi? Quanto costa ricostruire l’immagine? Recuperare la situazione? … ammesso che sia possibile.

Se sai che esiste la remota possibilità dell’avverarsi di una crisi, anche solo reputazionale, devi obbligare il tuo cliente a prepararsi. Lo sai che ti scanserà e cercherà di sottrarsi, perché lo stai costringendo ad affrontare argomenti fastidiosi, magari scottanti o semplicemente imbarazzanti, ad andare oltre l’apparenza dei rapporti formali, a uscire dalla zona di confort rappresentata dalla convinzione che tanto quella cosa non accadrà mai e che, se anche accadesse, lui non sarà mai chiamato a doverne parlare o a doverla commentare, specie con giornalisti impiccioni e ficcanaso. Ovviamente non è così e, ancora una volta, la fatica e il fastidio del prevenire (e un po’ di timore che «se ci penso poi accade davvero») spinge ad accantonare la preparazione.

Tutta questa “tirata” per dire cosa? Semplicemente che un comunicatore, soprattutto quando si trova davanti ad una situazione di potenziale -ancorché remota- crisi, deve assumersi lo scomodo compito del grillo parlante. Arrivando finanche a litigare con il cliente per fare il proprio mestiere. Altrimenti non sta facendo il suo lavoro.

Facile? Neanche un po’.

Necessario? A qualunque costo.

C’era una volta … la favoletta dello storytelling

Chi mi conosce lo sa: sono sempre stato freddo (direi gelido) sia sulla moda dello storytelling (le storie, che da sempre sono una delle basi del lavoro dei giornalisti, sono tutta un’altra … storia) sia sul primato dei social network (per carità, vanno fatti e seguiti, ma le maggiori risorse per me vanno messe nel “giardino di casa”, ovvero in tutto quanto sul web c’è di proprietario di un’azienda). Sostenendolo in convegni e discussioni, ho spesso preso solenni bacchettate dallo stuolo di pecore bianche che compone la schiera dei comunicatori italiani. Ma, per dirla col Poeta, «scusate, non mi lego a questa schiera: morrò pecora nera!». E i clienti che mi scelgono, penso lo facciano anche per questo.

Non posso, quindi, che plaudire ed inchinarmi a Paolo Iabichino, uno tra i pubblicitari più importanti d’Italia e che lo scorso anno ha vinto il premio di “Comunicatore dell’anno”, che nei giorni scorsi è stato intervistato dal collega Fabio Grattagliano per Il Sole 24 Ore (cercate e leggete il “pezzo”: ne vale la pena).

Sotto il titolo «Troppi social e poca creatività. I brand devono tornare a casa», in estrema sintesi Iabichino afferma la necessità per marchi e aziende di «tornare a casa e portare lì le persone, su spazi proprietari» affidando «i propri contenuti a magazine editoriali e piattaforme di contenuti digitali che recuperano i principi degli house-organ di una volta» con «la necessità e l‘urgenza di cambiare il racconto della marca e smettere di credere alla favoletta dello storytelling una volta per tutte».

Perché, e lo sappiamo tutti, la moda di questi anni (che sarà certamente dura a morire) ha fatto proliferare i fake, le community artatamente gonfiate a suon di acquisti di fan e like e i cosiddetti “influencer”, con il risultato che i più guardano all’apparire (cioè le visualizzazioni) piuttosto che all’essere (la reputazione).

Ecco perché, come ho detto recentemente a un amico/cliente, 30 persone che hanno letto un tuo approfondimento, valgono più di 1.000 profili che avrebbero (e sottolineo avrebbero) visualizzato un tuo post.

La reputazione non si compra. Può solo essere costruita con la forza dei contenuti (quelli veri, figli degli accadimenti) che, quando sono reali e non markettari, trovano diritto di cittadinanza anche tra i media.

…dimenticavo. Anche quanto ho scritto oggi è parte dell’articolata risposta che avete il diritto di ricevere quando vi chiedete: «ma perché sui media ci vanno sempre gli altri?» (se non siete reali, non diventate notizia).