C’era una volta … la favoletta dello storytelling

Chi mi conosce lo sa: sono sempre stato freddo (direi gelido) sia sulla moda dello storytelling (le storie, che da sempre sono una delle basi del lavoro dei giornalisti, sono tutta un’altra … storia) sia sul primato dei social network (per carità, vanno fatti e seguiti, ma le maggiori risorse per me vanno messe nel “giardino di casa”, ovvero in tutto quanto sul web c’è di proprietario di un’azienda). Sostenendolo in convegni e discussioni, ho spesso preso solenni bacchettate dallo stuolo di pecore bianche che compone la schiera dei comunicatori italiani. Ma, per dirla col Poeta, «scusate, non mi lego a questa schiera: morrò pecora nera!». E i clienti che mi scelgono, penso lo facciano anche per questo.

Non posso, quindi, che plaudire ed inchinarmi a Paolo Iabichino, uno tra i pubblicitari più importanti d’Italia e che lo scorso anno ha vinto il premio di “Comunicatore dell’anno”, che nei giorni scorsi è stato intervistato dal collega Fabio Grattagliano per Il Sole 24 Ore (cercate e leggete il “pezzo”: ne vale la pena).

Sotto il titolo «Troppi social e poca creatività. I brand devono tornare a casa», in estrema sintesi Iabichino afferma la necessità per marchi e aziende di «tornare a casa e portare lì le persone, su spazi proprietari» affidando «i propri contenuti a magazine editoriali e piattaforme di contenuti digitali che recuperano i principi degli house-organ di una volta» con «la necessità e l‘urgenza di cambiare il racconto della marca e smettere di credere alla favoletta dello storytelling una volta per tutte».

Perché, e lo sappiamo tutti, la moda di questi anni (che sarà certamente dura a morire) ha fatto proliferare i fake, le community artatamente gonfiate a suon di acquisti di fan e like e i cosiddetti “influencer”, con il risultato che i più guardano all’apparire (cioè le visualizzazioni) piuttosto che all’essere (la reputazione).

Ecco perché, come ho detto recentemente a un amico/cliente, 30 persone che hanno letto un tuo approfondimento, valgono più di 1.000 profili che avrebbero (e sottolineo avrebbero) visualizzato un tuo post.

La reputazione non si compra. Può solo essere costruita con la forza dei contenuti (quelli veri, figli degli accadimenti) che, quando sono reali e non markettari, trovano diritto di cittadinanza anche tra i media.

…dimenticavo. Anche quanto ho scritto oggi è parte dell’articolata risposta che avete il diritto di ricevere quando vi chiedete: «ma perché sui media ci vanno sempre gli altri?» (se non siete reali, non diventate notizia).

I social per le aziende? Contenuti, ritualità e ne basta uno

Predicare la ritualità e pensare a questo mio blog mi fa venire un po’ da ridere … ma tant’è. E archiviato questo mese di aprile accorciato dai tanti “ponti” e per me denso di eventi e accadimenti, visto che nelle ultime due settimane sono spesso andato sull’argomento con vecchi clienti e nuovi contatti, eccomi a dire come penso che le aziende dovrebbero usare i social network.

Con una premessa: nel mio libretto sulla comunicazione ho chiarito che i social network non sono un target dell’ufficio stampa … perché l’informazione ha delle regole precise che i social network, per loro natura anarchici e libertini, proprio non accettano … Asserire questo non significa in alcun modo sminuire la potenza dei social network, semplicemente marcare una chiara differenza, dovuta sia all’alta permeabilità dei social network alla pubblicità occulta e all’azione dei gruppi organizzati, sia alla mancanza del lavoro di controllo e verifica delle informazioni che è alla base del potere dei media. Certo, su pubblicità occulta, gruppi organizzati, veridicità e controllo si potrebbe parlare per ore e, se si potesse farlo, ne avrei proprio di cose che ho fatto da raccontare ☺.

Oggi voglio stare nel tema, cioè il mio modo di intendere la comunicazione sui social per le aziende. Ovvero: per i profili, proporre con ritualità contenuti e storie con cui raccontare il proprio prodotto e parlare di sé senza formule smaccatamente pubblicitarie, alternando con continuità contenuti in cui di sé e del proprio prodotto proprio non si parla, ma si offrono notizie e approfondimenti sul proprio mondo di riferimento o su argomenti di stretta attualità; per l’engagement, evitare come la peste l’acquisto di like, visualizzazioni e sponsorizzazioni dei propri contenuti e puntare al posizionamento naturale e al coinvolgimento dei gruppi di volta in volta più interessati all’argomento, andando a cercarli, solleticarli, incuriosirli ad uno ad uno.

E, soprattutto, capire perché si vuole entrare nei social. «Perché ci sono tutti», «Perché dobbiamo svecchiarci», «Per trovare nuovi clienti»: non sono risposte né sufficienti né utili a sostenere una scelta così importante -e senza ritorno- per un’azienda. Seguire la massa non è mai utile in comunicazione: ci si ritrova spersi nel mezzo del gregge, coperti dai belati degli altri e assolutamente non più distinguibili. Per svecchiarsi, quella di aprire dei profili sui social network non è certo l’unica strada. Per trovare clienti, quasi sempre è più utile la lead generation. Senza aggiungere che i social si possono tranquillamente utilizzare in comunicazione (e non sto parlando di pubblicità) senza bisogno di avere un profilo.

Seguo aziende che il profilo social non ce l’hanno per scelta, ne supporto altre che se lo fanno internamente chiedendoci solo periodiche consulenze e altre ancora che ci hanno affidato in toto la gestione dei loro profili. E non è che una sia meglio dell’altra. E’ tutta una questione di strategia di comunicazione. E l’omologazione non è mai una strategia.

Ah, dimenticavo: per un’azienda meglio avere un profilo attivo, quotidianamente aggiornato e reattivo ai commenti su un solo social network, che avere presidi semideserti e sovente abbandonati su tutti i social.