Fare recall sui giornalisti significa mendicare: non si fa

Lo sapevo che scrivere un blog sarebbe stato un lavoro e ho ben chiaro che se non si tiene una ritualità di pubblicazione si perdono lettori. Ma se hai un’agenzia di servizi, le necessità dei tuoi clienti vengono sempre prima delle tue esigenze.

Excusatio non petita? Forse ☺. In realtà solo condivisione di chi, come voi, a fatica trova il tempo per fare ciò che gli piace; anche se devo dire che il mio lavoro mi diverte davvero. E per questo mi ritengo fortunato.

Un po’ meno divertente è passare il tempo a ripetere gli stessi concetti. Perché, a volte, anche chi ha sposato in pieno il mio modo di intendere la comunicazione ci ricasca.

Così è di ieri la telefonata di un cliente che mi dice: «ma se ha pubblicato la Repubblica, perché non lo deve mettere anche il Corriere? Dai, chiama qualche tuo amico in redazione e digli di pubblicare!».

Insomma, qualcuno ancora mi chiede di mendicare uno spazio per lui. Di fare come le pierre e telefonare al giornalista di turno per dirgli: «il mio cliente ci terrebbe davvero tantissimo a vedere pubblicata sul suo giornale questa notizia. Ma lei, che è sempre così attento alle questioni, come mai non capisce l’importanza di questo nostro comunicato?».

Insomma, nel blandirlo gli si dice che non sa fare il suo lavoro. Quando, ovviamente, non si fa di peggio. Come metterlo in contrapposizione al solerte collega della testata concorrente che, invece, ha pubblicato. Oppure si tenta di comprarne la benevolenza con inviti a cena o promesse di invio di beni o prodotti. O si finisce a mendicare anche nei toni: «dai, uno spazietto sul giornale me lo può anche trovare, faccia il bravo!».

Ora, ho ben chiaro che il 90% delle agenzie di comunicazione queste telefonate le fanno come prassi di lavoro. Di più, spiegano a clienti e discepoli che se non fai recall non ottieni nulla dai giornalisti brutti, sporchi e cattivi. Che bisogna chiamarli, altrimenti non vedono il tuo comunicato (e questa è patetica: ma ogni volta che mandano una mail o un sms telefonano al destinatario per sapere se l’ha visto? Ma che usino what’s up, dato sono pochissimi quelli che bloccano le “spunte” azzurre!).

Con altrettanta chiarezza so come queste telefonate vengono accolte dai colleghi. Lo so, perché ne ho ricevute a bizzeffe quando ero a capo di redazioni e perché ho tanti amici che ancora stanno nei media e ogni volta me le commentano con malcelata ilarità e spesso con fastidio. Atteggiamento, quest’ultimo, pericoloso per un giornalista, perché rischia di fargli bollare a priori qualunque comunicazione giunga da quella data fonte come una scocciatura, col rischio di perdersi spunti che potrebbero per lui essere interessanti.

Noi giornalisti siamo delle brutte bestie, mi è chiaro, e in qualche prossimo post ne parlerò. Ma una cosa la sappiamo fare: capire se per noi, la nostra testata e la sua linea editoriale, il mix del notiziario che in quel dato momento stiamo creando, un fatto può diventare notizia. E se decidiamo di no, è no. Ma se la cosa che abbiamo letto è davvero interessante, ce ne ricorderemo. E magari ci verrà utile per un altro notiziario, oppure mai. Perché nel mondo dei media c’è un unico giudico di campo: il giornalista … e anche di questo ne riparlerò.

Sia chiara una cosa: quello che per me è notizia, può non esserlo per te. Così oggi Repubblica pubblica e il Corriere no. E domani potrebbe essere il contrario.

Ma capitela: la notizia non è mai il brand del cliente

Proprio non ce la fanno: è più forte di loro! Prima devono dire quanto è bello, quanto è grande, quanto è interessante il brand del loro cliente. E poi, forse, riescono a tratteggiare il fatto che potrebbe diventare notizia.

Sto parlando del modo di comunicare da pierre, purtroppo seguito anche da tanti colleghi che, per di più, pensano di avere ragione e che la colpa sia tutta dei “cattivi” giornalisti delle redazioni. Colpevoli, secondo loro, di non comprendere le notizie.

L’ennesimo esempio è delle scorse settimane.

Per ragioni di lavoro ho avuto contatti con un ufficio stampa gestito con i classici metodi da pierre, che mi ha chiesto dei dati generali del settore della vendita a domicilio. Non ce n’erano di recenti, giro quel che ho e dopo un paio di giorni mi arriva per conoscenza il loro comunicato.

Con una mail accompagnatoria: «Mi auguro di cuore che i dati da voi forniti “aiutino“ a fare accendere qualche lampadina anche ai giornalisti più “ indifferenti”!».

Bho, penso, se la tua notizia non ha forza in sé, come la può avere con dei dati che abbiamo già comunicato da tempo?

Così apro il comunicato e leggo (in corsivo le parole che ho cambiato per non citare il brand e in neretto la notizia. E, sì, le maiuscole stanno proprio nel testo originale: sic!): «Cosmetici naturali di altissima qualità, prodotti in quel tal Paese e distribuiti attraverso “Party” a domicilio. Amati da migliaia di consumatori che, ogni giorno, aprono le loro case a 24.000 Incaricati alle vendite. Qualità, fiducia e responsabilità sono i pilastri sui quali l’azienda, che è ai vertici della vendita diretta, ha costruito la propria relazione con il mercato e rinnovato, ogni giorno, il patto con i propri consumatori. Per questo, nella settimana del 27 febbraio, l’azienda aderisce a “M’Illumino di Meno”, evento nazionale sul risparmio energetico giunto alla 13° edizione , promuovendo in tutto il Paese inconsueti “Incontri-Party” con i consumatori………a lume di candela!».

Analizziamo: 607 battute (10 righe, addirittura più di una “breve” di un qualunque giornale) di “fuffa” su quant’è bello e quant’è bravo il mio brand prima di dare la notizia. Che, dimenticavo, non viene messa neanche nel titolo.

Ora: io, oggi, sono arrivato all’undicesima riga solo per ricordarmi cosa non si deve fare. Ma se fossi stato ancora in redazione, mi sarei fermato alla seconda riga e poi sarei passato ad altro. Archiviando il comunicato come la classica velina pubblicitaria.

Non perché io sia indifferente, ma perché tu non sai interessarmi.

Se vogliamo ragionar con i media, proviamo a parlare il linguaggio dei giornalisti, mettendo in cima al pezzo la notizia e lasciando che sia lei a far parlare del vostro cliente.

Così, magari, le cose andranno meglio … senza il magari!

Perché la notizia non è mai il brand del cliente.

Solo i giornalisti garantiscono la correttezza delle informazioni. Forse!

 

Tu guarda: l’Ordine dei Giornalisti è riuscito stupirmi e, di fatto, a convincermi ad aprire un blog per parlare della comunicazione, così come la intendo io.

E già, perché il 17 febbraio 2017 l’Ordine ha approvato all’unanimità un ordine del giorno con cui chiede che anche negli uffici stampa delle aziende private, come già avviene per quelle pubbliche, siano impiegati solo giornalisti. A tutela «del diritto dei cittadini di essere informati in maniera corretta».

Affermazione pesante, se ci pensate bene, perché lascia aperto l’uscio alla considerazione che gli uffici stampa non diffondano sempre la verità.

E a volte è così, lo sappiamo. Ma non dovrebbe essere così.

Il problema è che nessuno ha mai seriamente marcato la differenza tra uffici stampa e uffici pubblicità. Si è lasciato fiorire un andazzo fatto di relazioni (più o meno pubbliche) che ha portato molte aziende e multinazionali a convincersi che l’ufficio stampa debba dipendere dal marketing!!!

Chi mi conosce sa come la penso, in primis su questo tema. E poi sulla rete, i social, la comunicazione, gli eventi usati per comunicare … Da adesso in avanti, anche chi non mi conosce lo scoprirà, se vorrà leggermi ovviamente. Perché da oggi inizio a ragionar di comunicazione e a dire come la vedo e come la penso.

Partendo dal fatto che sono abbastanza certo che nulla cambierà nell’italica gestione degli uffici stampa. Perché tutti, alla fine, fanno i funamboli, o meglio i bottai (con grande e assoluto rispetto per chi crea le dimore del divin Bacco), tirando un colpo prima al cerchio e poi alla botte.

Anche quell’ordine del giorno, che ha avuto il merito (o la colpa ☺) di smuovere la mia penna, è per buona parte figlio di ben altri interessi corporativi. Come quelli che hanno portato l’Ordine dei Giornalisti ad esentare gli iscritti all’Albo da più di 30 anni dalla necessità di raggiungere i 60 crediti formativi ogni triennio.

Intendiamoci, non è invidia: io ho più di 30 anni di iscrizione e quindi posso anche godermi questo “beneficio”.

E’ che penso che sia una presa in giro dire che ai “nonni” del giornalismo basta fare 20 crediti deontologici in tre anni per essere in regola con la formazione continua. Semmai, infatti, sono proprio gli altri crediti formativi quelli che ci servono. Perché il rischio di non restare aggiornati e al passo con i tempi è altissimo … ma questa è un’altra storia.